
Per il numero di luglio/agosto 2024 de IL FOTOGRAFO (che trovate in edicola o direttamente sul sito della casa editrice) ho scritto l’Editoriale e un articolo che introduce quattro autori. Qui di seguito il testo integrale.
Sebbene la fotografia di strada sia sempre più inflazionata, un po’ per la sua apparente facilità nel praticarla, ma anche per le parole che si spendono in materia, in Italia c’è uno strano andamento che fa arretrare quanto vissuto storicamente, come se ci fosse una regressione e ci si porta sempre più verso una espressione esterofila e divulgativa, non produttiva e su contenuti non sempre qualitativamente di spessore, poco in linea con quanto i grandi della storia ci hanno mostrato nel tempo.
In un mondo dove sempre più prepotentemente si sente parlare di fotografia di strada, sarebbe auspicabile quanto meno che i riferimenti contemporanei da mettere a disposizione per chi si avvicina al genere fossero preparati non sono tecnicamente con esercizi di stile e virtuosismi, ma che siano in grado di poter dare seguito a dibattiti e confronti. Farne capire l’importanza antropologica prima di tutto!
Questo perché la nostra era, guardandone il lato positivo, ci permette di confrontarci e di metterci in discussione sia da singoli che in quanto comunità.
Non riesco a individuare una causa ammesso che ce ne sia veramente bisogno, ma la si può ritrovare in parte (ahimè) nei social network che producono maestri generati da seguiti, like e algoritmi, nei content creator che utilizzano la fotografia di strada per divulgare uscite tecnologiche, oppure semplicemente una generale idea che quelle fotografie non avendo una connotazione ben definita (potremmo prendere ad esempio il ritratto o il paesaggio) possono essere categorizzate come foto street. Il che sappiamo benissimo che non corrisponde alla realtà.
E allora, per la street photography, vale veramente la massima di Oscar Wilde «non importa come, l’importante è che se ne parli.»? oppure tutto questo rumore di fondo fa solo male alla fotografia e quello che ne consegue? Dopotutto lo stesso Oscar Wilde disse anche che «C’è una sola cosa al mondo peggiore del far parlare di sé, ed è il non far parlare di sé.» e questo lo attribuirei a chi divulga senza coscienza e conoscenza. Sarebbe questa, forse, la vera domanda da porsi.
QUANDO UNA SOLA FOTOGRAFIA NON BASTA PIÙ
Mentre intorno al 2010 l’esigenza di mettersi insieme creando dei collettivi e gruppi (con un numero territoriale spropositato) era prioritario, oggi si è un po’ messa da parte quella volontà e si guarda più al generare eventi, contest e tutto quel filone di divulgazione sul genere che cerca posizionamento.
Sono nate iniziative, festival e circuiti veri e propri, a volte che si supportano a vicenda, con una sovrapproduzione che rapportata alla qualità di prodotto e al numero di autori che effettivamente sono degni di nota, non reggono, non riescono a storicizzare.
Molto frequentemente per questi eventi si usano come punto di forza autori esteri (Matt Stuart, David Gibson, Nick Turpin, solo per citarne alcuni), invece di guardare al nostro bacino. Sarà forse perché, escludendo i soliti quattro nomi, non abbiamo veramente autori contemporanei degni di nota che possono sostenere il turnover necessario alla quantità di eventi?
Quando feci la disamina sulla street photography dalla sua nascita fino ai giorni nostri (pubblicata nel n.327 de IL FOTOGRAFO), già c’erano dei chiari segnali di cambiamento, che ponevano l’accento sul linguaggio e sulla necessità di individuare la street photography come un vero e proprio modo di essere e non come un genere fotografico. La volontà di alcuni passava dall’estetica e virtuosismo dove la forma opprimeva il contenuto per spingersi su narrazioni complesse, multi immagine.
L’utilizzo di stratagemmi come quelli di titolare i contenuti in modo da indirizzare il fruitore alla lettura come meglio si crede, composizioni accademiche che rasentano la perfezione, tanto da far mancare totalmente il contenuto. Tutto è diventato stancante.
Ecco perché nel girovagare tra posti, social, contenitori, ho selezionato 4 autori che, dal mio punto di vista, esprimono al meglio questa esigenza. Quella di liberarsi, godere (e far godere) della fotografia, facendo fotografia.

CIRO PIPOLI – LA NAPOLI CHE VORREI
Ciro è giovane, pulito, fuori da qualsiasi gioco e schema al quale la fotografia ci sta abituando. Schemi che stanno sporcando la fotografia di strada.
Vive sui quartieri spagnoli (si perché non si dice “nei”) e da quando aveva 16 anni fotografa inconsapevole della forza comunicativa della sua visione.
Tradizione, territorialità, storicizzazione, tutti contenuti che danno forza non solo alla sua fotografia, ma anche al genere.
Man mano ha preso coscienza delle sue capacità e si presenta al grande pubblico con una campagna per Dolce&Gabbana. Sbam!
Ha capito però che vivere fotograficamente giorno dopo giorno (un po’ come le singole immagini che ci propone) non gli basta, anche se continua imperterrito, ha una esigenza, quella di dedicarsi ad un progetto a lungo termine. Ma un linguaggio di spessore che si ripropone in ogni contenuto, non è già lui stesso un progetto?
È in giro con il suo primo libro: Ciro. Non lo leggete come un’autocelebrazione, ma leggetelo come l’espressione di un popolo, di una cultura e di una città che possiamo identificare in un nome. Come lui stesso afferma «ognuno di noi è Ciro». Non faccio fatica a crederlo. Per lui la fotografia è un mezzo di approfondimento straordinario. È un racconto dove spesso l’urgenza di distinguere tra l’elemento fondamentale e quello inutile svanisce, creando un linguaggio che tutti possono interpretare. Per lui la fotografia cambia forma in base alle esigenze, a volte è un ampio respiro, diventa salvifica, altre volte è puro esercizio.

BARBARA DI MAIO – TRADIZIONE E SGUARDO IN AVANTI
I suoi studi di fotografia presso l’ICP di NY già la presentano con un occhio strizzato alla documentazione e alla strada, poi se ci affacciamo al suo Master in Fotogiornalismo vediamo anche la costruzione di narrazioni e ci rendiamo conto che, la fotografia singola si basa su una struttura molto complessa e non è solo quello che può essere considerato un caso fortuito di chi va in giro con una fotocamera per le strade del mondo.
Infatti lei stessa crede che la fotografia progettuale sia una immersione con il soggetto e con tutto quello che gli appartiene.
Fondatrice, insieme a Francesca Tiboni di Women in Street Italy (sez. italiana di Women in Street) una community tutta la femminile che si esprime con fotografia di strada.
Per lei la fotografia di strada è la possibilità di poter ritornare a vivere i momenti belli della sua infanzia. Si rivede quando usciva a giocare a pallone in piazza con i suoi amici, quando con la mamma passeggiava in Via Caracciolo. La magia di Napoli è la sua gente, le persone, sono quelle le cose che cerca nelle sue fotografie. I bambini, la loro ingenuità, l’amore puro donato senza riserve. Gli anziani, l’autenticità del vissuto, il consiglio offerto senza voler nulla in cambio.
Si vede in continua evoluzione e se gli chiedessimo come si vede tra 10 anni non saprebbe cosa rispondere, non saprebbe dove e come, ma una cosa ce l’ha ben chiara, quello che vuole è documentare il nostro patrimonio immateriale.

FLAVIO ZAMBERLAN – LA CAPITALE CHE SI MUOVE
Se avete un’idea iconografica del fotografo, lui non la rispecchia, quindi vi conviene rivedere il vostro rapporto con il vostro “com’è fatto un fotografo?”.
Vive la fotografia come passione, passione vera. Studia, legge, guarda mostre, libri, viaggia, con e ha sempre la sua macchina fotografica, che non è un feticcio, ma solo l’estensione del suo occhio.
Si vede nella sua fotografia la fonte di ispirazione che mescolata alla sua visione diventa un mix generativo. nuovo, fresco, con contenuto e poco formalismo. Quello di cui veramente potrebbe aver bisogno oggi la fotografia di strada in Italia. Attraverso l’obiettivo, esplora la complessità e la bellezza della vita quotidiana, trovando arte e significato nei luoghi e nelle situazioni più comuni. La fotografia è per lui una forma di meditazione e riflessione, un modo per connettersi con il presente e con le persone che incontra lungo il suo cammino. In definitiva, la fotografia è la sua voce visiva, uno strumento per celebrare la vita e per creare un archivio visivo delle esperienze umane.
Storicizzare quello che vede diventa fondamentale.
La sua ultima serie fotografica è finalista alla quarta edizione dell’ExibArt Street Photography Contest, con una visione fresca, contemporanea.Quando si impegna in progetti a lungo termine si immerge nel soggetto, ne osserva l’evoluzione nel tempo e crea un racconto visivo ricco di sfumature e dettagli.

VANESSA PALLOTTA – LA VISIONE CHE STRIZZA L’OCCHIO ALLA STRADA
Se il fotografo di strada è una figura che si porta con la propria fotocamera per le vie del mondo affidandosi alla propria visione, Vanessa è differente da questo, infatti non la vedrei nemmeno come street photographer. Ma la sua attitudine sicuramente è quella che la porta al contatto con la strada.
Giovane, intraprendente, la sua fotografia è stata già pubblicata su Vogue, Vanity Fair, National Geographic, altre riviste di settore e su libri di fotografia.
Vede la fotografia di strada come un luogo inaccessibile ai più, un bacino di microscopici momenti e gesti, passaggi e movenze che si distinguono tra la folla.
Trovarsi di fronte ad uno sfondo con qualcosa di straordinario che succede. Scattare.
Un repentino attimo quotidiano che può rendere una storia minuscola incredibilmente enorme.
Con progetti a medio lungo termine ha un buon rapporto, un approccio sereno e concentrato. La fotografia di strada è presente in questa volontà, cercando di fuggire alla frustrazione dello scatto singolo. Con la fotografia, soprattutto con quella di strada, la coinvolge continuamente, è un processo creativo continuo e quando si arriva in saturazione il progetto diventa necessario.
Anche lei è convinta che per far diventare la fotografia italiana un linguaggio c’è bisogno di preparazione, studio e sostegno, altrimenti il rischio è quello di codificare questo linguaggio solo in parte. C’è bisogno di aiutare la buona fotografia ad essere capita e apprezzata, soprattutto alle nuove generazioni.
Non bisogna rischiare che i giovani si approprino del mezzo e del linguaggio senza averne coscienza e consapevolezza.





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